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CATASTROFI A SCELTA - INTERVISTA A MARTIN REES

Di Stefania Maurizi

Pubblicata su Tuttoscienze de La Stampa, 23 febbraio 2005

Nell’era della scienza e della tecnologia, l’apocalisse verrà dai laboratori. O almeno così teme Martin Rees. Astrofisico di fama internazionale e Astronomo Reale d’Inghilterra _ un titolo questo che in passato fu assegnato al grande astronomo Edmond Halley _ Rees insegna a Cambridge e recentemente ha pubblicato il libro Il secolo finale (Mondadori, 2004). Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua apocalisse.

Professor Rees, la sua visione del futuro è piuttosto fosca. Cosa la spaventa di più?

Innanzitutto, la minaccia di una guerra nucleare catastrofica non è affatto sfumata, ed anzi è piuttosto seria, perché anche se il rischio si è ridotto rispetto alla guerra fredda, abbiamo comunque un numero di ordigni capaci di annientare l’intera specie umana in un solo colpo. E nel giro di 50-100 anni potremmo avere un riallineamento e uno scontro tra nuove superpotenze forse anche peggiore della guerra fredda. Ma oltre a ciò, sono emerse nuove minacce dalle cybertecnologie e dalle biotecnologie.

Lei sembra particolarmente preoccupato da quest’ultime e nel libro scommette che entro il 2020 un episodio di bioerrore o bioterrore avrà ucciso un milione di persone. Eppure, pur con rischi altissimi, almeno finora siamo stati in grado di gestire il pericolo nucleare. Perché con le biotecnologie dovrebbe andare diversamente?

Queste nuove tecnologie possono mettere nelle mani di pochi individui una potenza distruttiva che in passato era prerogativa degli stati. Per costruire armi nucleari è stata necessaria una quantità pazzesca di soldi e cervelli che, almeno fino a pochi anni fa, solo le grandi potenze potevano permettersi. Per le armi biologiche, invece, sono necessarie attrezzature che possono essere alla portata di piccoli gruppi, o addirittura individui.

Visto quello che dice, dopo l’11/9, gli Stati Uniti hanno deciso di raddoppiare il numero dei “laboratori di biosicurezza 4”, che trattano i virus e gli agenti patogeni più pericolosi al mondo, per cui attualmente non c’è rimedio. Sono in molti a denunciare che aumentando il numero delle persone che ci lavorano, aumenta anche il rischio che quella robaccia possa uscire dai laboratori per errore o per azione di uno squilibrato o di un terrorista...

Sì, è una tendenza molto preoccupante: sta aumentando il numero di scienziati in grado, per esempio, di creare nuovi virus geneticamente modificati e capaci di resistere ai vaccini e alle cure oggi disponibili. Immagini se qualcuno di loro avesse la mentalità di chi si diverte a creare i virus informatici e a farli diffondere in tutto il mondo! Pare che, dietro gli attacchi all’antrace del 2001, ci fosse un individuo che lavorava in un laboratorio del governo USA del tipo di quelli che citava lei.

Che dovrebbero fare allora gli scienziati? Boicottare questi studi?

Le ricerche militari portate avanti nel segreto assoluto _ quindi senza un dibattito aperto e democratico_ sono particolarmente inquietanti. Ma in generale è difficile dire cosa è giusto fare. Per esempio, chi lavorava alle armi nucleari sapeva benissimo dove andava a parare: costruiva bombe. Ma chi lavora su certi patogeni ha il problema del dual use, ovvero le stesse tecnologie possono essere usate per il male o per il bene dell’umanità: non possiamo prendere i grandi benefici che promettono, senza incorrere in grossi rischi.

In fondo, però, la scienza è questo: per godere dei suoi benefici, abbiamo sempre dovuto rischiare e se non l’avessimo fatto saremmo ancora al Medioevo. Non le pare?

Sì, però c’è qualcosa di nuovo nei rischi della scienza di oggi, rispetto a quella del passato: quando Faraday faceva gli esperimenti sull’elettricità, al massimo rischiava di rimanere folgorato lui, o se durante un esperimento di fisica scoppiava una caldaia, potevano morire 5 o 6 ricercatori. Oggi, invece, un bioerrore potrebbe portare a un’epidemia globale. O se per esempio consideriamo gli effetti degli OGM sulla salute e sull’ambiente, è vero che, per quanto se ne sa, un esito catastrofico sembra improbabile, ma non è neppure da escludere categoricamente. Perciò bisogna essere estremamente cauti. E non solo per il problema del danno su larga scala, ma anche perché un incidente, anche non catastrofico, una volta amplificato dai media, potrebbe portare a una fortissima ostilità verso la scienza da parte del pubblico.

Comunque, l’esperienza nucleare ci ha insegnato molto: dopo Hiroshima e Nagasaki, i fisici hanno acquisito una nuova coscienza e capito che avevano un’enorme responsabilità nei confronti dell’umanità. Lei crede che i biologi abbiano bisogno di una loro Hiroshima per acquisire una coscienza del genere?

Spero proprio di no! Nel ’75, per esempio, i biologi decisero di non sfruttare la tecnica del DNA ricombinante, perché avrebbe potuto essere pericolosa. In seguito, si capì che quella preoccupazione era esagerata, ma comunque la comunità dei biologi dimostrò di saper agire responsabilmente.

Quello che ha appena detto tira in ballo il problema del controllo della scienza. Secondo lei, andrebbe lasciata sviluppare liberamente o dovrebbe essere soggetta a restrizioni?

E’ un problema veramente spinoso, perché tutti noi ricordiamo le istituzioni e i regimi che hanno cercato di controllare la scienza e assoggettarla a certi valori morali, sociali o ideologici. E nessuno vorrebbe tornare a quei tempi. D’altra parte, non è neppure vero che in uno stato libero la scienza si sviluppa in modo completamente autonomo ed estraneo a pressioni esterne. Per esempio, le pressioni commerciali o militari hanno il potere di influenzare, o addirittura cambiare, il corso della scienza. Personalmente, credo che la battaglia per ridurre il rischio che certe scoperte siano usate a danno dell’umanità vada giocata su due fronti: prima di tutto, gli scienziati devono avere consapevolezza della responsabilità che hanno verso la società e devono vigilare sull’uso che viene fatto delle loro scoperte.

La stoppo subito dicendo che non è affatto facile…

Certo, come del resto non è facile per un genitore controllare un figlio adolescente, ma è anche vero che ci sono genitori che se ne fregano dei figli adolescenti, esattamente come ci sono scienziati che non si preoccupano minimamente delle conseguenze delle loro scoperte.

E qual è il secondo fronte?

Quello del dialogo: gli scienziati devono confrontarsi col pubblico, perché stiamo andando verso un secolo pericoloso, in cui la scienza e la tecnologia possono aprire porte che magari dovrebbero rimanere chiuse. E certe decisioni non deve prenderle la comunità scientifica: vanno prese democraticamente.

Deve ammettere però che spesso gli scienziati liquidano le critiche del pubblico come stupide o irrazionali...

E’ vero. E questo è sbagliato. Prendiamo per esempio l’ostilità del pubblico verso le centrali nucleari, una parte della comunità scientifica la liquida come frutto dell’ignoranza, eppure anche gli scienziati sono divisi in tema di energia nucleare.

Tornando infine alla responsabilità sociale degli scienziati, il Nobel per la Pace Joseph Rotblat ha scritto che gli scienziati vengono formati in un “deserto morale”, ovvero il loro curriculum non prevede neppure un’ora di riflessione sulle implicazioni sociali ed etiche del loro lavoro. Che ne pensa?

Ho avuto la fortuna di conoscere Rotblat, che considero uno dei grandi uomini del nostro tempo. Fu l’unico scienziato che abbandonò la costruzione della bomba atomica per ragioni morali, non appena scoprì che Hitler non aveva l’atomica: non volle usare la sua scienza per costruire un’arma di distruzione di massa eppure, come ebreo, aveva tutte le ragioni di essere terrorizzato dal nazismo. Ha passato l’intera vita a combattere per il disarmo nucleare e a sensibilizzare l’opinione pubblica. Non è un’esagerazione dire che se finora siamo sopravvissuti alla minaccia nucleare è anche grazie a lui e a scienziati come lui. Credo che oggi abbiamo bisogno di nuovi Rotblat nella genetica e nelle nuove tecnologie.