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I DIRITTI UMANI SONO UNA SCIENZA - INTERVISTA A SUSANNAH SIRKIN

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su Tuttoscienze de LA STAMPA, 1 giugno 2005

Una delle più grandi conquiste dell’umanità è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che, proclamata nel ’48 dall’ONU, stabilisce il diritto di ogni essere umano alla vita, alla libertà, a non essere torturato, ad avere i mezzi necessari per sopravvivere e così via. Eppure, la battaglia per i diritti umani è tutt’altro che vinta: oggi, su circa 6 miliardi di abitanti del pianeta, 240 milioni - cioè 1 su 25 - sono costretti ad abbandonare la propria casa o il proprio paese per sfuggire a povertà estrema, guerre, persecuzioni politiche o religiose, razzismo o devastazioni ambientali. Può la scienza giocare un qualche ruolo in questa battaglia? Ne abbiamo parlato con Susannah Sirkin, vicedirettore di Physicians for Human Rights (PHR), ovvero Medici per i diritti umani, un’organizzazione non governativa con sede a Boston (USA) relativamente “giovane”, ma che ha già al suo attivo un premio Nobel per la Pace, vinto nel ’97 insieme ad altre importanti associazioni per i diritti umani.

Dottoressa Sirkin, voi vi definite “un’alleanza di scienza e coscienza”, com’è nata l’alleanza?

Verso la metà degli anni ’80, alcune personalità molto rispettate all’interno della comunità medico-scientifica americana vennero a contatto diretto con violazioni gravissime dei diritti umani. Alcuni di loro erano andati nel Salvador o nel Sudafrica dell’apartheid, in missioni promosse da università o dalla National Academy of Sciences; qualcun altro invece si era ritrovato nella difficile situazione di dover andare in Cile per chiedere il rilascio del presidente e del segretario generale dell’Associazione Medici Cileni, arrestati dalle forze di Pinochet, perché si erano opposti alla pratica dilagante della tortura. Vedere brutalità di ogni genere e constatarne gli effetti sulla salute fisica e mentale di intere popolazioni li portarono a concludere che i medici avevano bisogno di un’associazione tutta loro sia per portare i metodi scientifici nella lotta per i diritti umani sia per mobilitare una professione molto potente, come quella medica. Così, nell’ ’86 nacque PHR.

Che differenza c’è tra voi e organizzazioni tipo Medici Senza Frontiere?

MSF è un’organizzazione umanitaria, cioè soccorre e cura pazienti. Noi non trattiamo pazienti, facciamo ricerca e mobilitiamo i medici e il personale sanitario.

Cosa intende esattamente con “ricerca sui diritti umani”?

Intendo ricerca scientifica seria, che pubblichiamo su riviste come The Lancet, The New England Journal of Medicine e JAMA, Journal of the American Medical Association. Prima che PHR cominciasse il suo lavoro, la ricerca sui diritti umani consisteva essenzialmente nel fare interviste a vittime di violazioni. Era di fatto giornalismo. Purtroppo, però, fare interviste, fotografie o reportage non basta. Se un’organizzazione vuole essere presa sul serio e vuole fare pressione su governi o istituzioni internazionali, deve disporre di dati e prove assolutamente incontrovertibili. E’ per questo che PHR usa i metodi della scienza per documentare le violazioni dei diritti umani.

Che metodi, di preciso?

Dipende dal problema. Quando indaghiamo genocidi o crimini di guerra, il nostro obiettivo è raccogliere prove scientifiche del massacro, quindi usiamo patologi e archeologi forensi e tutti i cosiddetti crime experts. Quando invece abbiamo studiato la condizione delle donne sotto i Talibani, abbiamo usato medici, epidemiologi ed esperti di statistica per monitorare come lo stato di salute fisica e mentale delle donne deteriorava sotto un regime che impediva loro di socializzare, avere accesso all’istruzione, alle professioni, ecc..

Come reagiscono al vostro lavoro, i giornali scientifici? Voglio dire, voi fate una ricerca molto diversa da quella normalmente pubblicata.

Inizialmente ci obiettavano che la nostra non era scienza, era politica e a volte ci rifiutavano la pubblicazione. Poi, però, nel corso degli anni ci siamo guadagnati un enorme rispetto da parte loro, sia per la qualità del nostro lavoro, sia perché gente come Jack Geiger della City University of New York, Robert Lawrence della Johns Hopkins University, o Jennifer Leaning della Harvard School of Public Health di Boston - che sono solo alcuni dei nostri fondatori - godono di un grandissimo rispetto nella comunità scientifica americana. La cosa interessante è che ora i nostri metodi di ricerca si stanno diffondendo anche in altre organizzazioni, contribuendo ad “alzare il livello” dell’attivismo sui diritti umani.

Capisco il valore scientifico del vostro lavoro, ma ha prodotto risultati concreti?

E’ chiaro che dipende da cosa intende con “risultati concreti”. Per esempio, una volta raccolte le prove di un genocidio o della repressione talibana, non abbiamo certo l’autorità per arrestare i responsabili del genocidio o per fermare i talibani: è la comunità internazionale che deve agire. Tuttavia, noi non pubblichiamo mai lavori fini a se stessi - tanto per fare buona ricerca - facciamo ricerca per produrre cambiamenti precisi, che possono essere, appunto, raccogliere prove per far arrestare un criminale di guerra o fare pressione, perché una certa legge sia cambiata. Nel marzo scorso, ad esempio, in USA siamo riusciti ad ottenere l’abolizione della pena di morte per i minori, dopo una lunga campagna portata avanti con tante altre associazioni. E la cosa interessante è che per arrivare all’abolizione non sono bastate le argomentazioni legali o etiche di chi ricordava che le leggi internazionali vietano esplicitamente la condanna a morte dei minori, che ormai nel mondo solo gli USA, l’Iran e il Congo l’autorizzavano e che dall’ ’85 ad oggi gli USA da soli hanno condannato a morte più minorenni di tutti gli altri stati del mondo messi insieme. E’ stato necessario smontare la falsa assunzione scientifica su cui la pena si fondava, ovvero che un ragazzo di 16 o 17 anni, dal punto di vista cognitivo ed emotivo, è maturo quanto un adulto.

E come ci siete riusciti?

Mobilitando neuroscienziati, psicologi, psichiatri, esperti dello sviluppo, ecc..- molti di loro eminenti - perché smontassero quel falso e partecipassero ad un’insistente campagna di pressione sul governo americano.

La mobilitazione dei medici vi serve solo ad acquisire le “prove scientifiche” alla base delle vostre campagne?

Serve anche a creare una cultura dei diritti umani all’interno di una professione come quella medica, che può fare davvero la differenza. Puntiamo a tre obiettivi: formare medici consapevoli del problema, ed è per questo che abbiamo creato un corso in collaborazione con una delle migliori scuole mediche del mondo, la Harvard Medical School; aiutare colleghi di qualsiasi paese che sono vittime di violazioni, com’è successo al presidente e al segretario dell’ordine cileno, che senza l’intervento di colleghi stranieri influenti forse sarebbero stati ammazzati; infine, prevenire e condannare le violazioni compiute dai medici.

In effetti, purtroppo, anche medici e scienziati si sono macchiati di violazioni di diritti umani gravissime: basta ricordare che gli scienziati nazisti condussero esperimenti abominevoli sugli ebrei o che quelli giapponesi misero in piedi un vasto programma per costruire armi biologiche, testandole sui civili cinesi.

Sì, ma tornando ad oggi, va detto che violazioni come la tortura nelle prigioni sono possibili anche grazie alla complicità dei medici, che forniscono ai militari le competenze per praticarla o falsificano i certificati, in modo che non risulti che il detenuto sia stato torturato e magari morto sotto tortura. Per esempio, non è ancora affatto chiaro il ruolo dei medici nello scandalo di Abu Ghraib, in Iraq. E noi insistiamo che eventuali complicità, anche ad altissimo livello, vanno indagate e punite, perché assolutamente incompatibili con la professione medica.

Concludendo, come riuscite a sostenere il peso di un lavoro sempre a contatto con la brutalità?

Certo, è un lavoro pesante ed è pesante constatare che nel 21esimo secolo ce ne sia ancora bisogno, perché siamo ancora qui a parlare di genocidi e torture. Eppure va fatto, perché prima o poi non serva più.