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La vera storia della fuga di Edward Snowden

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su espressonline, 10 gennaio 2015

(http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/01/10/news/la-vera-storia-della-fuga-di-edward-snowden-1.194403)

E' venerdì 21 giugno 2013, Edward Snowden, compie 30 anni, si trova a Hong Kong, dopo aver rivelato, per la prima volta nella Storia, i programmi di sorveglianza di massa della più potente e tecnologicamente avanzata agenzia d'intelligence del mondo: l'americana National Security Agency (Nsa). Da dodici giorni Snowden è introvabile: da quando ha lasciato l'hotel Mira - dove ha incontrato e ha lavorato con i due giornalisti indipendenti, Laura Poitras e Glenn Greenwald e con Ewen MacAskill del Guardian - è sparito nel nulla. Tutto il mondo gli dà la caccia, governo americano in testa, ma nessuno riesce a trovarlo. E' quel venerdì che l'organizzazione di Julian Assange, WikiLeaks, gli fa arrivare un messaggio che deciderà il suo destino: le frontiere di Hong Kong sono ancora aperte, se vuole scappare, deve farlo subito, perché potrebbero chiudersi in qualsiasi momento. Ora o mai più. Ma Snowden esita: teme che la fuga verso l'aeroporto segni la fine delle sue ultime ore di libertà, una corsa che lo porti, nel migliore dei casi, dritto dritto in una prigione americana di massima sicurezza. E allora indugia. «Questo comportamento ci faceva impazzire», ricorda Julian Assange.

La storia al cardiopalma di come Edward Snowden è riuscito a lasciare Hong Kong alla ricerca di asilo viene rivelata per la prima volta dal film “Snowden's Great Escape” (La grande fuga di Snowden), dei giornalisti John Goetz della tv tedesca “Ndr” e Poul-Erik Heilbuth, di quella danese, “Dr”, e di cui chi scrive ha guidato la ricerca giornalistica. Un'inchiesta svolta tra Hong Kong, Stati Uniti, Mosca e Londra, e con interviste esclusive ai protagonisti, da Edward Snowden al padre, Lonnie, da Julian Assange e Sarah Harrison di WikiLeaks, da Glenn Greenwald a Robert Tibbo, avvocato di Snowden a Hong Kong, fino al generale americano Michael Hayden, che per conto di George W. Bush ha creato l'Agenzia, così come la conosciamo oggi. Un lavoro investigativo che ricostruisce vicende che solo Snowden stesso e WikiLeaks possono conoscere nella loro interezza, perché nessun altro era lì in quelle ore decisive, neppure Glenn Greenwald e Laura Poitras, i due giornalisti a cui il contractor della Nsa ha consegnato decine di migliaia di file top secret.

Dal mosaico ricostruito da “Snowden's Great Escape” affiora anche l'Italia: gli Stati Uniti hanno chiesto al nostro Paese di arrestare Edward Snowden, emettendo un mandato di arresto provvisorio a scopo di estradizione pervenuto al ministero della Giustizia il 4 luglio 2013. Sebbene il provvedimento risalga a oltre un anno fa, esperti di diritto penale internazionale interpellati nel corso dell'inchiesta hanno confermato che è ancora valido: se Edward Snowden dovesse viaggiare, o anche solo transitare sul territorio italiano, il rischio di finire arrestato ed estradato negli Usa sarebbe estremamente serio. Per Snowden, l'Italia è un paese da cui stare alla larga.

Il pandemonio

Tutto comincia la sera di domenica 9 giugno. Edward Snowden, giovane contractor americano che lavora per la Nsa, si rivela al mondo in un video di dodici minuti filmato da Laura Poitras, pubblicato dal Guardian e visto da milioni di persone in tutto il mondo. E' lui la fonte dei documenti top secret pubblicati solo quattro giorni prima dal Guardian, che hanno innescato uno scandalo senza precedenti. Tutti i governi del pianeta sono mobilitati – eccitati o terrorizzati dalle rivelazioni – e tutte le redazioni giornalistiche del pianeta sembrano impazzite, alla ricerca dei documenti di Snowden, esattamente come tre anni prima cercavano i cablo della diplomazia americana, pubblicati da WikiLeaks.

Stavolta, però, l'organizzazione di Julian Assange non c'entra. I file non sono stati pubblicati da WikiLeaks e Julian Assange sembra fuori combattimento: confinato in una stanzetta dell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, guardato a vista, giorno e notte, dagli agenti di Scotland Yard. Dal sito del Guardian, il team di WikiLeaks osserva con grande attenzione il video dell'intervista di Snowden. Dopo anni di esperienza nel gestire fonti scottanti, a WikiLeaks non sfugge la prima immagine del filmato: quella ripresa della baia di Hong Kong potrebbe aiutare il governo americano a localizzare dove si trova esattamente Snowden. Nell'era della comunicazione globale e virale, migliaia di giornalisti si buttano su Google Earth per visualizzare particolari di una città, twittano apertamente quello che hanno visto e come lo interpretano, si appellano a lettori e follower locali che possono aiutarli a riconoscere quel ponte o quella lampada in quel preciso hotel. Sono tutte comunicazioni tra giornalisti, lettori, esperti che avvengono o pubblicamente sui social network o attraverso canali insicuri come le email, che le agenzie di intelligence riescono a spiare senza problemi. Quello che i giornalisti stanno cercando è esattamente quello che il governo americano sta cercando: dove si trova Edward Snowden?

L'organizzazione di Julian Assange ha visto cosa è successo a Chelsea Manning: la presunta fonte arrestata immediatamente dopo aver confessato online a uno sconosciuto di aver passato documenti esplosivi a WikiLeaks, detenuta per nove mesi in condizioni inumane e poi processata. Ad Assange non serve molto per capire cosa stava per succedere: «Guardiamo alla situazione di Edward Snowden», riflette, «ha 29 anni, si trova in una giurisdizione di cui non ha esperienza, è oggetto della più grande caccia da parte dell'intelligence che il mondo abbia mai visto, la realtà è semplice: lo faranno a pezzi». Il giorno dopo la pubblicazione del video dell'intervista, a Hong Kong «è il pandemonio», come ricorda il giornalista del Guardian, Ewen MacAskill. Snowden ha lasciato l'hotel Mira, ma migliaia di reporter sono sulle sue tracce. E proprio quel giorno Sarah Harrison si imbarca su un aereo dall'Australia.

I giorni dell'abbandono

Dopo aver lasciato l'hotel Mira, Snowden è di fatto abbandonato. Né il Guardian né il Washington Post che hanno pubblicato i suoi file, mettendo a segno scoop per cui hanno poi vinto il premio Pulitzer, si sono fatti carico della sua situazione legale e non perché i giornalisti che hanno lavorato con lui sul campo se ne siano fregati, ma perché l'ordine è arrivato dall'alto: la paura per i due colossi della carta stampata è di finire dritti in una devastante inchiesta per avere aiutato un “fuggitivo” che ha rivelato informazioni top secret. «Se c'è una cosa che vorrei cambiare sarebbe quella per cui avremmo voluto fare di più per Snowden», ammette il reporter del Guardian, Ewen MacAskill. «Io ho parlato con i miei capi di quello che potevamo fare per Snowden, se avessimo dovuto pagare le spese dell'hotel o fornirgli supporto legale. Avrei voluto avere più tempo per uscire fuori con una soluzione».

Quello che sembra essere anche mancato al Guardian è la fiducia di poter far qualcosa: «L'idea che qualcuno potesse in qualche modo sfuggire agli Stati Uniti a lungo, ci sembrava inconcepibile», racconta MacAskill. E' dopo la pubblicazione del video che Snowden contatta WikiLeaks, come racconta Assange: «Ci contattò e ci chiese aiuto». La situazione di quei giorni è ben sintetizzata da Snowden: «Tutti i media del mondo volevano mettere le mani sulla storia [dei file Nsa, ndr]. Una sola organizzazione giornalistica aveva detto: vogliamo aiutare la fonte», ricorda oggi, «e quell'organizzazione era WikiLeaks».

Una ninja a Hong Kong

A Hong Kong, Sarah Harrison si muove con destrezza. Conosce bene la città dove ha amici e familiari. Cittadina britannica, intelligenza pronta, grandissima lavoratrice, carattere solare con una buona dose di sangue freddo, Harrison ha un ruolo importante nel lavoro di WikiLeaks. Appena arrivata, inizia subito a fare una ricerca sulla situazione legale di Edward Snowden: può chiedere asilo? Quali sono le probabilità di ottenerlo? E cosa comporterebbe? Dopo aver affrontato per anni la situazione di Julian Assange e di WikiLeaks, Harrison ha familiarità con quei temi e conosce esperti e organizzazioni in giro per il mondo che hanno ogni sorta di competenza e capacità di assistere rifugiati e prigionieri politici. Gli avvocati di Snowden a Hong Kong conoscono bene le problematiche dell'asilo: Robert Tibbo, in particolare, lavora con i rifugiati. Dopo alcuni giorni di ricerca, Sarah Harrison li incontra di persona e li usa come intermediari per creare un canale di comunicazione criptato con Snowden: l'unico sistema accettabilmente sicuro per comunicare direttamente con il contractor. Harrison ha infatti pedinato per una mezzora il team legale di Snowden, concludendo che gli avvocati non sono in grado di muoversi per la città senza essere seguiti. E allora meglio stare alla larga ed evitare assolutamente di incontrare Snowden attraverso gli avvocati. L'incontro sarebbe stato semplicemente troppo pericoloso.

Come legale, Tibbo è convinto che la battaglia si possa vincere, perché, per quanto Hong Kong sia parte della Cina, mantiene un buon sistema giudiziario ereditato dalla dominazione inglese, che ne fanno uno stato di diritto. Harrison e WikiLeaks non mettono in dubbio quell'analisi, ma temono gli esiti di una lunga battaglia giudiziaria per ottenere asilo: Snowden avrebbe, molto probabilmente, atteso per anni una decisione finale sulla richiesta di asilo, rimanendo in carcere e, una volta in prigione, sarebbe stato non solo lontano da tutto e da tutti, con possibilità minime di incidere sul dibattito pubblico sulla sorveglianza di massa, ma si sarebbe ritrovato anche a rischio di incolumità fisica. In ogni angolo del mondo, anche in quelli più civili, le prigioni sono buchi neri, dove morire non è difficile e dove risalire con certezza alle responsabilità di un attacco, un pestaggio o una caduta, è spesso impossibile.

Offuscamento

Mentre Harrison si muove sul campo, Julian Assange, confinato tra le quattro mura dell'ambasciata di Knightsbridge, capisce che le comunicazioni criptate non bastano. Bisogna dividere le notevoli risorse dell'intelligence americana e creare più confusione possibile, in modo da rendere difficile far capire cosa sta accadendo alle agenzie sulle tracce di Snowden. Per questo, a Hong Kong, Harrison visita più ambasciate possibili per spargere incertezza sulle sue prossime mosse. Quanto alle autorità di Hong Kong, WikiLeaks arriva alla conclusione che per loro Snowden non è affatto il benvenuto, anzi. «Quello che ci fu detto», ricorda Sarah Harrison, «è che all'interno del governo di Hong Kong il modo di sentire generale era tale che il governo voleva solo che se ne andasse, perché era una patata troppo bollente, con cui semplicemente non volevano avere a che fare e che poteva far infuriare sia la gente di Hong Kong sia Pechino: era semplicemente troppo problematico».

WikiLeaks valuta tutte le varie opzioni, «dove poteva essere al sicuro, dove poteva andare, sentendo le opinioni di varie persone in tutto il mondo», racconta Harrison, «ma la decisione finale era la sua, perché quella era la sua vita». Venerdì 21 giugno, gli Stati Uniti desecretano l'ordine di arresto, subito diffuso dalla stampa americana. Snowden è choccato di essere accusato di spionaggio: «Quello che era particolarmente straordinario di quell'atto di incriminazione è che includeva l'accusa di spionaggio, e loro [il governo americano, ndr] sapevano che io non stavo lavorando con alcun governo straniero», ragiona Snowden, «sapevano che stavo lavorando solo con i giornalisti e che il destinatario di quelle informazioni era l'opinione pubblica». Il tempo ormai a disposizione è pochissimo: ore. Hong Kong ha già ricevuto la richiesta di arresto, ma c'è un problema: nell'atto, il governo americano ha commesso un errore, indicando il nome completo di Snowden come “Edward James”, anziché “Edward Joseph” - una circostanza questa che funzionari di alto livello del governo di Hong Kong hanno confermato agli autori dell'inchiesta “Snowden's Great Escape”. Non solo la richiesta di arresto va valutata dalle autorità giudiziarie di Hong Kong, ma l'errore nella compilazione dell'atto spinge Hong Kong a chiedere chiarimenti agli Stati Uniti.

E' in quelle ore di quel venerdì 21 giugno che l'organizzazione di Julian Assange riesce a verificare la situazione delle frontiere di Hong Kong per capire se il nome di Snowden è già inserito nei computer della polizia di frontiera come quello di un ricercato. I computer indicano che il varco è ancora aperto, ma l'ordine di arresto appena desecretato e diffuso dai giornali internazionali non lascia dubbi: potrebbero chiudersi in qualsiasi momento. «Quello che preoccupava Snowden era conoscere con esattezza la situazione alla frontiera. Era d'accordo sul fatto di dover lasciare Hong Kong, ma pensava che appena arrivava al controllo passaporti poteva essere arrestato. E quindi era veramente riluttante a scappare, perché avrebbe potuto bruciare gli ultimi attimi di libertà», spiega Assange. Per spargere ancora una volta confusione e incertezza, in modo da rendere difficile il lavoro delle agenzie di intelligence americane, WikiLeaks e Snowden arrivano ad acquistare una decina di biglietti aerei in tutto il mondo a nome del contractor e pagando con la sua carta di credito, tra cui uno per l'India, prenotato per il 25 giugno.

In volo verso l'ignoto

Domenica 23 giugno, Sarah Harrison ha in mano il biglietto decisivo da Hong Kong a Quito, in Ecuador, transitando per Mosca, L'Avana, Caracas e infine Quito. Corre verso l'aeroporto di Hong Kong dove per la prima volta incontra Snowden, con lui c'è il suo avvocato, Robert Tibbo. Snowden non indossa gli occhiali, che tanto caratterizzano il suo volto, non ha zaino, né computer: dall'esterno, lui e Harrison sembrano una giovane coppia, come tante, pronta ad andare in vacanza. L'idea è arrivare all'ultimo secondo in un posto tanto rischioso come l'aeroporto. «Non credo che gli Stati Uniti avrebbero cercato di assassinarlo in aeroporto», racconta Julian Assange, «ma magari potevano creare un caso e fare pressione sulle autorità aeroportuali affinché lo arrestassero». In aeroporto, c'è gente pronta a intervenire e creare un caso nell'eventualità in cui Snowden sia bloccato.

Harrison si presenta al controllo del passaporto per prima, per trovarsi pronta nell'area passeggeri nel caso in cui Snowden fosse fermato. Supera il controllo senza alcun problema. Poi è il turno di Edward Snowden: si presenta con il sorriso al controllo passaporti, passano alcuni minuti. L'avvocato Robert Tibbo è in ansia. Dopo lunghi e interminabili minuti, arriva il timbro sul passaporto di Snowden: la giovane coppia può imbarcarsi.

Il decollo è previsto da Hong Kong per le 10.55 ora locale. Ma sulla pista c'è una fila di aerei in attesa. La tensione è alle stelle. Harrison e Snowden non scambiano una sola parola fino a quando il volo non esce dallo spazio aereo della Cina. A quel punto il picco di adrenalina si smorza. «Perché l'hai fatto?», è la prima cosa che le chiede Snowden. Harrison spiega che lei e la sua organizzazione hanno voluto salvare una fonte giornalistica, assicurargli quella protezione che non avevano neppure fatto in tempo ad assicurare a Chelsea Manning. «Sì, ma non immaginavo che WikiLeaks mi mandasse una ninja», le dice scherzando per la prima volta, Snowden.

Intrappolati

L'aereo atterra all'aeroporto Sheremetyevo di Mosca nel pomeriggio. La diplomazia ecuadoriana è in movimento: l'idea è di far arrivare a Snowden un salvacondotto che gli permetta di raggiungere l'Ecuador e ottenere asilo. Ma allo Sheremetyevo, i diplomatici ecuadoriani non riescono a incontrare Snowden e Harrison. Appena atterrati, i due si recano al check-in per continuare il volo. L'aereo che hanno prenotato per L'Avana è previsto per il giorno successivo: lunedì 24 giugno alle 14.05 ora locale. Ma l'operatrice del desk è chiara: Edward Snowden non può volare, il suo passaporto è stato cancellato. «Mi ha colpito molto che gli Stati Uniti abbiano cancellato il mio passaporto, cercando di bloccarmi in giurisdizioni che non sono affatto considerate particolarmente amiche degli Stati Uniti», riflette oggi Snowden.

Nelle ore in cui l'aeroporto di Sheremetyevo è preso d'assalto da reporter di tutto il mondo, l'Fbi non dorme. «Praticamente appena è atterrato a Mosca, l'Fbi mi contattò e io scelsi di parlare con loro per quattro ore», ricorda il padre, Lonnie Snowden. La famiglia di Edward Snowden ha una lunga tradizione di lavoro al servizio del governo americano, molti antenati di Snowden hanno servito il Paese. Per questo il padre di Snowden non ha problemi a parlare con l'Fbi: percepisce il governo come una forza intrinsecamente buona, e così «ho condiviso con loro qualsiasi cosa potevo. Volevo aiutarli», racconta. E' quando l'Fbi gli propone di volare a Mosca perché «devono controllare lo stato di salute del figlio», che rimane spiazzato e capisce che vogliono usarlo come esca. «Ho riso», ricorda, «state scherzando?», chiede all'Fbi.

Lonnie Snowden non è l'unico ad essere avvicinato. Edward stesso, poco dopo essere arrivato a Mosca, viene avvicinato dall'intelligence russa, che implicitamente gli offre una via d'uscita dall'aeroporto di Sheremetyevo in cui è ormai intrappolato con un passaporto cancellato. «Glielo hanno chiesto una volta, è praticamente inimmaginabile che non l'avessero fatto. Non ha dato assolutamente nulla ai russi e di sicuro non ha cooperato con loro in nulla», racconta Sarah Harrison. «Sono stata sempre con lui, tutto il tempo, ci gioco la mia vita che non ha dato nulla a nessuno». Bloccati in un aeroporto senza prospettive, Snowden e Harrison passano i loro giorni in una stanzetta senza finestre né doccia, con un accesso limitato a internet, e cibo spazzatura del Burger King, acquistato da Harrison. Preparano decine di richieste di asilo politico: dal Brasile alla Germania, dall'Italia al Venezuela. «Credo che la Polonia sia stata la prima a dire di no, seguita dalla Francia», ricorda Edward Snowden. «L'Italia ha detto che avrebbe risposto, ma poi non l'ha fatto. La grande maggioranza dei governi europei ha fatto qualcosa che ritengo rivelatorio: non ha preso alcuna posizione».

Tirate giù Evo Morales

Mentre l'Europa volta completamente le spalle a Snowden, Bolivia, Venezuela, Nicaragua e Ecuador sono pronti a proteggerlo. Il problema è come arrivarci. «C'erano vari piani per portarlo via da Mosca», racconta Julian Assange. «Abbiamo valutato la possibilità di aerei privati e anche presidenziali. Avevamo una dritta da dentro l'amministrazione Usa che gli Stati Uniti si sentivano abbastanza sicuri di poter costringere un aereo privato ad atterrare, un po' meno sicuri di poterlo fare con un aereo commerciale e per niente affatto sicuri di poter bloccare un aereo presidenziale». Il 2 luglio, solo dieci giorni dopo l'atterraggio in Russia di Snowden, il presidente Evo Morales vola sul suo aereo presidenziale che lo riporta in Bolivia dopo un vertice sul gas a Mosca. Morales non aveva fatto mistero della propria disponibilità a offrire asilo alla fonte dello scandalo Nsa.

Il piano di volo prevede di andare dalla Russia al Portogallo alla Guyana e da lì a La Paz, in Bolivia. Per arrivare a destinazione, Morales deve attraversare lo spazio aereo di Italia, Francia, Spagna e Portogallo, come è stato peraltro regolarmente autorizzato a fare. Ma prima di raggiungere il territorio italiano, l'aereo presidenziale di Morales viene costretto a far rotta su Vienna, perché lo spazio aereo dei quatto paesi europei è chiuso. Tutti e quattro negano di aver giocato un ruolo attivo nell' “incidente”: c'è chi si giustifica, dicendo di aver negato il sorvolo per un problema tecnico e chi di trincera dietro il silenzio. Il governo italiano parla attraverso il ministro degli Esteri Emma Bonino, che il 4 luglio di fronte al Parlamento, dichiara che Francia, Spagna e Portogallo hanno chiuso i loro spazi aerei, mentre l'Italia non ha fatto nulla: l'aereo di Morales si è diretto verso Vienna, visto che gli altri paesi – ma non l'Italia – avevano negato il permesso di sorvolo. Strano che l'Italia non abbia giocato alcun ruolo, dal momento che è il primo paese che l'aereo di Morales si sarebbe trovato ad attraversare. Nonostante le ripetute richieste, sia il ministero degli Esteri, che quello degli Interni e della Difesa hanno rifiutato di collaborare in qualsiasi modo all'inchiesta “Snowden's Great Escape”..

Il Ministero della Giustizia italiano, invece, ha ammesso che quello stesso quattro luglio, mentre Bonino negava qualsiasi responsabilità italiana nel caso Morales,«è pervenuta dalle autorità statunitensi la domanda di arresto provvisorio a scopo di estradizione di Edward Snowden. Le autorità statunitensi ritenevano che Edward Snowden avrebbe potuto dirigersi in Italia oppure transitarci, circostanze che non si sono verificate». La stessa richiesta è pervenuta ad altre nazioni a cui Snowden aveva chiesto asilo, come la Germania e il Venezuela: è altamente probabile che gli Stati Uniti l'abbiano inviata a tutti i paesi a cui il contractor ha chiesto protezione. Interpellato per l'inchiesta “Snowden's Great Escape”, l'avvocato americano esperto di legge penale internazionale, Bruce Zagaris, ha dichiarato che, seppure la richiesta di arresto sia stata emessa oltre un anno fa, «rimane valida» e «se io fossi il suo legale, gli consiglierei di esercitare estrema cautela prima di viaggiare, soprattutto dopo il caso dell'aereo di Morales».

L'ultrafalco e il Leviatano

Snowden non è mai salito a bordo dell'aereo di Morales. E il generale americano Michael Hayden, l'uomo che, dopo l'11 settembre, ha fatto della Nsa il Leviatano orwelliano rivelato da Edward Snowden, ha un'idea di come potrebbero essere andate le cose la notte in cui il cui Morales fu bloccato. «Si parla da governo a governo, si esprime la preoccupazione e si spiega perché si pensa che quell'uomo possa essere su quell'aereo. Noi in quel momento non avevamo ancora idea se avesse con sé i documenti, le chiavette usb e gli hard drives, se ne parla con il governo amico, spiegando quando è seria la situazione e a quel punto si chiede di intervenire. E a quanto pare sono intervenuti». Non solo i quattro paesi sono “intervenuti”, ma l'intera Europa ha voltato le spalle a Snowden che chiedeva asilo. Ancora una volta, Hayden ha le idee chiare su come si sarebbe comportato se si fosse trovato a gestire personalmente il caso e a contattare decine di ambasciatori europei: «Snowden ha in mano segreti americani legittimi. E molti di quei segreti li abbiamo condivisi con i vostri governi. Molti di quei segreti riguardano come i vostri governi hanno collaborato con il nostro. E quindi, suvvia, non facciamo finta che quello che Snowden può rivelare riguardi solo gli Stati Uniti. Quel materiale creerà problemi anche a voi. Questo io direi».

Forse un giorno WikiLeaks rivelerà le trattative segrete dietro l'incidente Morales. Di sicuro, oggi Assange rivela un retroscena di come giocò la carta della disinformazione, conducendo una serie di conversazioni su canali di comunicazione molto insicuri per mettere in giro la voce che Snowden sarebbe volato da Mosca in Bolivia sull'aereo di Morales, mentre contemporaneamente, parlando su canali sicuri, cercava di far volare Snowden in America Latina sull'aereo del presidente venezuelano, Nicolas Maduro. Nel caso Morales, l'intelligence americana rimase vittima della disinformazione giocata da WikiLeaks? «E' una domanda interessante e devo ammettere che non ci avevo pensato prima», risponde il generale Michael Hayden. «Ma è una possibilità, certo».

Il caso Morales cambia tutto. «E' stata una situazione così potente, così impossibile da negare, come quando il ritrarsi della marea mostra le rocce che costituiscono la vera struttura delle relazioni tra paesi dell'Europa occidentale», racconta Julian Assange. Aver costretto l'aereo di Stato di un presidente ad atterrare scatena la furia dei paesi dell'America Latina e lo sconcerto di molti altri. A quel punto la Russia non può far finta di nulla: l'asilo a Snowden è ormai una questione di orgoglio nazionale. «Il caso Morales ha rafforzato l'immagine di Snowden come di vittima, di perseguitato», riconosce il generale Hayden con un certo imbarazzo. Se si trovasse dunque dall'altra parte della barricata, lei l'avrebbe usata come mossa per intrappolare l'America? «Ancora, una volta, non ci avevo pensato», ammette Hayden, «ma è una mossa incredibilmente intelligente».

Il primo agosto 2013, dopo trentanove giorni trascorsi nella stanza senza finestre e doccia dell'aeroporto Sheremetyevo di Mosca, Edward Snowden e Sarah Harrison ne escono: Snowden ha ottenuto asilo temporaneo. Solo per un anno, però. Nell'agosto scorso, il permesso di rimanere a Mosca gli è stato rinnovato per altri tre anni. Ma del futuro, non c'è certezza. L'unica certezza è che il governo americano non ha smesso di dargli la caccia: «Tanta gente come me non contemplerebbe mai l'idea di un'amnistia o di un patteggiamento pur di riportare Snowden in America», ragiona il generale Michael Hayden. «Ci sono centinaia di migliaia di individui nella comunità d'intelligence Usa che non hanno mai violato il loro giuramento di segretezza. Se il mio governo dovesse mostrarsi disponibile a riaccogliere Snowden, o anche solo ad avere un qualsiasi tipo di approccio che vada in quella direzione, si alienerebbe quella comunità di individui da cui dipende la sicurezza e la libertà della nazione. Non è una buona idea».